Marilyn Monroe, che la sua morte sia ancora un mistero non fa che accrescerne il mito. Anche dopo più di 50 anni. Che fosse un po’ problematica si sapeva da sempre dopo l’infinito numero di biografie e testimonianze uscite negli anni. Ora la storia della Cenerentola Norma Jeane che diventò la Principessa Marilyn viene proposta in una luce nuova da un libro appena uscito: “L’altra Marilyn. Psichiatria e psicoanalisi di un cold case”
Autori sono Liliana Dell’Osso, Professore Ordinario di Psichiatria dell’Università di Pisa e Direttore della Clinica Psichiatrica, e Riccardo Dalle Luche, anche lui psichiatra e psicoterapeuta: tutti e due sono appassionati di cinema e si sono formati nella stessa Scuola, la Clinica Psichiatrica dell’Università di Pisa. Lei però si è formata con Cassano e lui con Maggini, così hanno preso strade diverse e con il lavoro che hanno alle spalle rappresentano un po’ le due anime della psichiatria: quella di lei improntata alla psichiatria biologica, quella di lui più alla psicoterapia. Lavorare insieme al caso Marilyn e arrivare a un libro completamente condiviso significa anche dimostrare che le due anime possono convivere.
La novità vera comunque è che, con i progressi delle neuroscienze di questi ultimi anni, il caso Marilyn si presta a interpretazioni diverse rispetto al passato e ripercorrere le traversie psichiatriche dell’attrice permette agli autori di spiegare anche ai profani quali siano le nuove frontiere della psichiatria e della psicoterapia.
«Marilyn non mi era mai piaciuta, la trovavo “falsa” come in realtà era – dice la professoressa Dell’Osso – Con tutti i suoi atteggiamenti seduttivi manierati poteva darla da bere agli uomini ma a noi donne no. Alla fine l’ho smontata completamente e poi rimontata. E ora che la conosco bene mi è diventata anche simpatica».
Il libro è tutt’altro che un freddo trattato di psichiatria, è piuttosto un avvincente viaggio nella biografia della diva nel corso del quale gli autori tengono conto anche di tutto il contorno di avvenimenti e di personaggi che la circondano. Primo fra tutti il dottor Ralph Greenson, lo psicanalista che aveva in cura Marilyn da molti accusato di averne provocato la morte per le dosi massicce di barbiturici che le aveva prescritto.
Greenson curava Marilyn con sedute psicanalitiche e poi le somministrava sedativi. Lei invece cosa avrebbe fatto?
«Greeson aveva la mano pesante. Del resto allora non c’erano ancora i farmaci specifici di cui disponiamo oggi: erano appena stati scoperti in Europa, ma non erano ancora entrati nella pratica clinica. Greenson era costretto a sedarla, per cui per potersi alzare al mattino successivo Marilyn beveva anche venti caffè. Tutto il 1961 e il 1962 stava malissimo, tanto è stata ferma professionalmente. Nonostante fosse la gallina dalle uova d’oro, era stata licenziata dalla Fox perché non arrivava mai sul set, facendo lievitare i costi della produzione. Oggi le avrei prescritto stabilizzatori dell’umore, un antipsicotico di seconda generazione attivo sulle ruminazioni, che erano il primum movens della sua sintomatologia. L’avrei ricoverata nella mia Clinica Universitaria di Pisa e affidata ai miei giovani collaboratori per una disintossicazione visti gli abusi multipli di alcol, sedativi, stimolanti, oltre alle dipendenze affettive e comportamentali».
Avete fatto una diagnosi sul malessere di Marilyn?
«Marilyn è il prototipo di un certo tipo di disturbo, il “borderline”. Dietro la maschera perfetta che si era creata, era una persona insicura, con nessun senso morale. Era rimasta ferma a un’età infantile in cui era stata pesantemente abusata. Parlando della sua adolescenza, tuttavia, la descriveva come quella di tutti gli altri ragazzi e questo è uno degli indizi di spettro autistico subclinico: non si rendeva nemmeno conto del traumi subiti. In psichiatria stiamo vivendo un momento innovativo in cui stiamo elaborando una nuova classificazione. Per una paziente complessa come poteva essere Marilyn saremmo stati costretti a fare almeno 4 o 5 diagnosi, limitandoci ai disturbi principali, mentre si può partire da una prospettiva unificante, quella di uno “spettro autistico sottosoglia”, che da un lato l’ha sostenuta nella fase di ascesa e di creazione di un’icona intramontabile dall’altro ha fatto da substrato per il successivo sviluppo di una grave ed psicopatologia ad esito letale. Questo modello innovativo di psicopatologia è alla base di un progetto scientifico in cui ho coinvolto le Clinche Psichiatriche dell’ Università di Napoli, Pavia, Brescia, Catania, Firenze e Siena. Divulgarlo al di fuori dell’ambito medico è il vero obiettivo del libro».
Qual era il tormento di Marilyn?
«Dietro l’immagine della donna più amata del mondo si nascondevano due sostanziali fallimenti: il primo, quello di essere una donna che tutti volevano ma poi abbandonavano senza rimpianti, e che non riuscì a diventare madre a causa dei numerosi aborti, prima volontari, alla fine spontanei; il secondo, quello della star del gossip e del cinema che ambiva a diventare una vera attrice fino al punto da pagare e portarsi sul set improbabili maestre di recitazione e da sposare un drammaturgo come Arthur Miller che avrebbe dovuto confezionarle addosso ruoli per il palcoscenico».
Ma come è riuscita Marilyn a fare di se stessa un personaggio mitico?
«La mia ipotesi è che lei non sia diventata quello che è diventata nonostante la sua psicopatologia, ma proprio grazie a quella. Un’intuizione che mi è venuta dopo aver consultato tantissime fonti, diverse biografie scritte da psichiatri e psicologi, tra cui ho apprezzato quella di Luciano Mecacci, “Il caso Marilyn M.. e altri disastri della psicoanalisi”. Ho studiato anche i suoi “Fragments” quei pensieri che lei scriveva su foglietti che lasciava in giro e che sono stati raccolti e studiati da chi ne ha analizzato la calligrafia».
Marilyn indossava una maschera non solo sul set. Ma è innegabile che si era costruita la sua crisalide con molta sapienza. Ci dica un elemento di questa maschera che non sfugge all’occhio clinico della psichiatra.
«Lo sguardo di Marilyn. Niente è più ingannevole di quello sguardo profondo e seduttivo che l’ha resa immortale e che in realtà è un compendio di psicopatologia. Prima cosa: persone con lo spettro autistico lieve non riescono a sostenere lo sguardo oppure ti fissano intensamente, che è la stessa cosa. Secondo: la sedazione, da alcol e sedativi..
Terzo elemento: disturbo post traumatico da stress ripetuti che conferisce uno sguardo che gli americani chiamerebbero “numbing”, uno sguardo che guarda all’infinito. Lei è riuscita a mascherare tutto questo ribaltando la sua difficoltà e trasformando il suo isolamento in seduzione».
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