L’altra faccia di Marilyn: «Emotivamente instabile e paranoide» – da “Il Messaggero”

Anna Freud, nel 1956 a Londra, scrisse questo di lei dopo la visita: «Emotivamente instabile, fortemente impulsiva, bisognosa di continue approvazioni da parte del mondo esterno; non sopporta la solitudine, tende a deprimersi davanti ai rifiuti; paranoide con tratti schizofrenici». Marilyn Monroe, trentenne, era in Gran Bretagna a girare il film “Il principe e la ballerina” con Laurence Olivier. Si sentì male. Non riusciva a concentrarsi, ogni giorno arrivava più tardi sul set, si bloccava davanti alla macchina da presa. Con Arthur Miller, allora suo fidanzato, erano scontri e tragedie.

Un clima così ingestibile portò gli psichiatri che seguivano l’attrice negli Stati Uniti a chiedere aiuto alla figlia del grande maestro, Anna Freud. Diventata, con gli anni, supervisore degli psicoanalisti dell’attrice. Gli “scrutatori della mente” accompagnarono la vita di Marilyn da quando era piccola. Fin da quando, a otto anni, andava a trovare sua madre Gladys internata in vari ospedali psichiatrici. Anche Della, la nonna di Marilyn, era morta in un istituto per malattie mentali. Norma Jeane, vero nome di Marilyn, riuscì, per un soffio, a salvarsi dal tentativo dell’anziana di soffocarla con un cuscino. Un maledetto destino.
 
LE VISITE
Come ricostruiscono, in una sorta di mega cartella clinica, due specialisti, Liliana Dell’Osso ordinario di Psichiatria all’università di Pisa e Riccardo Delle Luche psichiatra e psicoterapeuta. Un ritratto psichico dell’attrice utilizzando le diagnosi, le dichiarazioni dei mariti e degli amici, le frasi della stessa attrice e i racconti dei produttori. Tutto è nel libro “L’altra Marilyn Psichiatria e psicoanalisi di un cold case” (Le Lettere editore), nato dai seminari sui suicidi eccellenti tenuti duranti diversi “Campus Angelini”. Che riuniscono gli specializzandi italiani di psichiatria.

«Ralph Greenson – spiegano gli autori – è stato l’ultimo psicoanalista che l’ha avuta in cura. Ha portato con sé, alla sua morte, i segreti professionali più importanti che la riguardavano. E i suoi figli hanno provveduto a vendere all’asta gli ultimi cimeli dell’attrice rimasti nella loro casa, macabri souvenir di un tragico epilogo». Un colpo di spugna dettato anche dagli attacchi che Greenson ha dovuto subire dopo la morte dell’attrice il 5 agosto del 1962 a 36 anni. È stato lui, infatti, che nell’ultimo mese di vita l’ha vista 28 volte, due il 4 agosto. Nella notte del quale è finita.

I PROBLEMI
Le diagnosi, miste ai racconti e alle confessioni di lei rimandano ad una donna dipendente da alcol e sostanze, fobica, sospettosa, paranoica. Sempre timorosa di non essere abbastanza femminile e sexy, dall’umore instabile, preda di gaiezza improvvisa ma anche di rabbia. Non riusciva a guardarsi allo specchio con serenità Marilyn. «Era sempre in lotta con se stessa – ricostruiscono i due psichiatri – Doveva essere vestita perfettamente, faceva impazzire le governanti, le sarte e le parrucchiere. Accumulava ritardi mostruosi».

Sarebbe stata la sua mancanza di senso del pudore a farla aderire al suo personaggio da svampita un po’ stupida. Aveva capito che, grazie al cinema, poteva sentirsi una donna desiderata da tutti. «Era in grado di uscire dalla sua maschera e di rientrarci – aggiungono gli specialisti – il suo vero problema era l’impossibilità, tolta la maschera di identificarsi in modo stabile con un ruolo». Dall’insieme dei dati che gli psichiatri hanno avuto a disposizione ne è uscita una donna «dall’insicurezza sociale e relazionale compensata dalla seduttività», «con ripetute crisi di panico», «senza scrupoli e senza senso del pudore al limite dell’assenza di ogni regola morale», «incapace di stare da sola». Andava in analisi dalle tre alle cinque volte a settimana, assumeva, fin dai primi anni Cinquanta, farmaci contro l’ansia e sonniferi. Due o tre volte fu ricoverata. Lei si definiva «uno stimato membro della Borderline Anonimi». Le diagnosi firmate dai suoi psicoanalisti Anna Freud, Marianne Kris e Ralph Greenson concordarono nel ritenerla una «schizofrenica paranoide marginale farmaco-alcol dipendente»

Greenson, l’ultimo analista dell’attrice, aveva scelto per lei una terapia combinata, psicologica e farmacologica. Anche se lei risultava resistente ad ogni tipo di cura. Così la descrive uno dei suoi tre mariti, Arthur Miller: «Lei indossava una gonna beige e una camicetta di seta bianca e aveva i capelli sciolti sulle spalle, con la riga a destra, e guardarla dava come una specie di dolore. Allora capii che dovevo fuggire o affrontare un destino inconoscibile. Malgrado la sua bellezza era circondata da una tenebra che mi turbava…».

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